Le
foto della presentazione de "Il segno del cavallo" presso
la sede dell'I.N.D.A.
Siracusa,
25 Novembre 2012
I giovani attori
dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico e Maurizio Donadoni
hanno reso magica la serata del 25 Novembre al folto pubblico accorso
nella sala Amorelli.
C’è stato il tutto esaurito e sono rimasti solo posti in piedi.
In molti sono purtroppo rimasti fuori, cercheremo quindi di rimediare postando
su You Tube i filmati della recita.
Cinque bravissimi attori hanno recitato nei ruoli di Tucidide, Alcibiade, Temistogene,
Leda e Aser: Temistogene e Leda hanno coinvolto il pubblico in un romantico duetto
degno di Romeo e Giulietta, mentre Tucidide in poche battute ha messo a nudo
lo stile di vita scellerato di Alcibiade e Maurizio Donadoni s’è lanciato
infine in un potente inno alla pace, recitando il monologo di Temistogene.
Un monologo che potete leggere in questo stesso Sito, dove si cita la presentazione
del 27 Settembre presso la Galleria Roma. Di seguito alcune foto della presentazione
(Foto di Diletta Romano).
La novità in libreria: "Il
segno del cavallo"
Giuseppe Bordonali e la dottoressa Annalisa Romeo durante la presentazione
presso la Galleria Roma del 27 Settembre 2012
Giuseppe
Bordonali ha recitato il seguente monologo di Temistogente durante
la presentazione de "Il segno del Cavallo" presso la
Galleria Roma.
Parla
Temistogene…
"Avete
ascoltato le parole di Tucidide. Ciò che avete ascoltato,
gliel’ho raccontato io. Io, che partii un giorno con altri
trentamila sventurati compagni dal Pireo per una guerra in Sicilia.
Mi
chiamo Temistogene, figlio di Agatone del demo di Oe, e ricordo
bene quel giorno di inizio estate, quando scendemmo festanti
all’alba sino alle navi, mentre tutta la città ci
acclamava.
Alcibiade
ci aveva convinto, Alcibiade dalle belle parole e dai modi eleganti
ci aveva incantato e illuso. Stolti!
Invano
il saggio Nicia aveva tentato di evitare la guerra, invano aveva
chiesto di non sguarnire la città delle sue truppe migliori
e delle sue navi più nuove. Invano Nicia aveva detto che
partivamo senza sapere quanto grande fosse la Sicilia e quanto
fossero forti l’esercito e la marina dei Siracusani. Invano
il vecchio aveva parlato!
Alcibiade
aveva ribattuto che, come tutti i vecchi, Nicia tendeva ormai
a difendere il suo, non avendo più quella spinta a migliorarsi
che hanno tutti i giovani. Nicia ora voleva fermare Atene, esattamente
come fa l’atleta che smette di allenarsi.
Sapete
cosa accade all’atleta che si ferma? Chiese Alcibiade al
demo riunito alla Pnice.
S’addormenta!
Gridò un suo scagnozzo prezzolato.
Bravo!
- Continuò Alcibiade – S’addormenta, si rammollisce,
perde efficienza e così gli avversari lo sopraffanno.
Così anche Atene, prima che venga aggredita dai paesi
confinanti, deve fare questa guerra preventiva contro Siracusa.
Conquistata la Sicilia, conquisteremo poi Cartagine, per dedicarci
infine ai Persiani. Solo allora potremo fermarci.
A
queste parole la folla esultò, avida di ricchezze e conquiste.
Esultò perché la guerra avrebbe rappresentato un
lavoro ben retribuito per i rematori della flotta e un ricco
bottino per gli opliti vincitori. Esultò la folla, trascinata
anche da coloro che Alcibiade aveva prezzolato. Così agiva
il ricco Alcibiade: pagando qualcuno che spingesse la folla dell’Agorà ad
accogliere le sue proposte e pagando anche i sacerdoti
dell’oracolo
di Amon per avere un responso favorevole alla guerra: Avrete
nelle vostre mani tutti i Siracusani. Con questo responso tornarono
dall’Egitto i messi di Alcibiade.
Quando
poi catturammo nel porto di Siracusa la scialuppa con i sacerdoti
che trasportavano ad Ortigia dall’Olympieion i papiri con
la lista dei cittadini Siracusani, solo io compresi che il dio
aveva risposto ad Alcibiade con la sua stessa moneta. Un inganno
aveva richiamato un altro inganno: solo i nomi dei Siracusani
avremmo avuto nelle nostre mani. Perché noi, i Siracusani
in carne e ossa, non li avremmo mai più catturati. Per
di più, poco prima che la flotta partisse, mani sacrileghe
avevano nottetempo mutilato dei loro falli le Erme ai quadrivi
di Atene. Sacrilegio! Non saremmo dovuti partire, dopo quella
grave offesa agli dèi. Eppure partimmo.
Dopo,
avrei voluto dimenticare tutto ciò che ho visto e sopportato
in Sicilia. Eppure, Tucidide riuscì a farmi parlare. In
verità non gli ho raccontato molto di Nicia, Lamaco e
Demostene, illustri strateghi che poeti e filosofi per secoli
ancora avrebbero ricordato. Gli ho parlato invece della fatica
e delle sofferenze dei miei tanti compagni, partiti con me e
mai più tornati a casa.
Solo
io infatti sono tornato a casa: ma senza compagni, senza navi,
senza ricchezze e da solo, come Odisseo. Come Odisseo ho però conosciuto
popoli barbari e nuove terre. Ho persino visto il cranio di Polifemo,
ho scalato l’Etna fumante e attraversato le praterie del
Simeto, dove i Siculi a cavallo cacciano con le frecce e le lance
i bufali selvaggi. Ho visto il santuario dei Palici e i riti
misterici di quei sacerdoti barbari. Sono poi stato due volte
a Neas, la capitale di re Ducezio: uno che prenderesti per Greco,
se non sapessi che è il re dei Siculi.
Amavo
però guardare Siracusa dall’alto del Plemmyrion.
La città era lì sul mare, a pochi stadi da noi,
e sembrava invitarci come una bellissima donna sfrontata. Sembrava
quasi a portata di mano… eppure non siamo riusciti a prenderla,
anche se due volte io vi sono entrato in missione segreta, perché Nicia
trattava segretamente con Atenagora la resa.
Mai
dimenticherò poi come ci uccidemmo tra noi Ateniesi nella
battaglia notturna all’Epipoli, né come morirono
gli uomini di
Demostene
circondati dai cavalieri Siracusani: invano i meschini alzarono
gli scudi per coprirsi dalle frecce e dai dardi dei cavalieri,
che in cerchio giravano loro intorno intonando già al
cielo i loro peana di vittoria. Quando Demostene s’arrese,
a migliaia le frecce e i dardi erano conficcati sul terreno e
sui cadaveri dei miei sventurati compagni.
Ricordo
soprattutto il sole impietoso sulle nostre teste, la gola riarsa
e la lingua attaccata al palato, la vista annebbiata e i ronzii
alle orecchie, le gambe che cedevano sui piedi piagati e i capogiri
per la sete che ci stava uccidendo, quando giungemmo infine all’Assinaros.
Acqua,
acqua, acqua! Solo l’acqua volevamo prima di morire. Non
importava se quell’acqua fosse già rossa del sangue
dei compagni che l’avevano raggiunta prima di noi e che,
pur di bere, s’erano lasciati scannare come i buoi indifesi
di un’ecatombe.
Anch’io
ho bevuto il sangue dei miei compagni, mescolato all’acqua
e al fango del fiume. Ma dove sono finiti i miei compagni? Molti
insepolti, divenuti pasto per cani e rapaci, rimarranno per sempre
senza pace. Altri più fortunati, come Teucro, Sosistrato
e Conone, con le mie mani li ho seppelliti, e le mie mani puzzano
ancora dei loro cadaveri disfatti. Ancora oggi non riesco ad
avvicinare le mie dita al naso.
La
puzza poi, ah, la puzza delle orride Latomie! Chi di voi volesse
conoscere il regno di Ade, dovrebbe passare dalle Latomie di
Siracusa.
Ricordo
infine come ottenni la mia libertà: recitando alcuni versi
de Le Troiane di Euripide nel teatro del Temenite, il più bello
e armonioso da me visto tra tutti quelli costruiti nel mondo
dai Greci.
Ieri
mi è venuto a trovare Senofonte. Vuole portarmi, con altri
diecimila, a combattere per Ciro una piccola guerra in Asia.
Domani
gli darò la mia risposta: caro Senofonte, mai più partirò per
una guerra, tragico inganno per i popoli!".
Foto
tratta dal video della trasmissione di Telestar del 4 Ottobre 2012
La sezione
si arricchisce di due video dedicati all'ultimo libro di Giuseppe
Bordonali.
Nel
primo video abbiamo un filmato tratto dal CD di History Channel
che sintetizza la guerra tra Atene e Siracusa. Il filmato è stato
utilizzato per la presentazione del 27 Settembre 2012. (Guarda
il video cliccando sul link numero 1).
Nel secondo
video viene proposta una sintesi della partecipazione di Giuseppe
Bordonali al programma "Cavalli e dintorni" sull'emittente Telestar
presso l'ippodromo del Mediterraneo. Lo scrittore recitava il ruolo,
ovviamente, di "dintorni", ma l'apparazione è stata un successo.
La giornalista Patrizia Tidona ha definito la puntata come "la più
bella tra le dieci già andate in onda. (Guarda il video cliccando
su link numero 2).
- Link Numero
1
-
Link Numero 2
Vento
di libertà
|
Augusta:
Giuseppe Bordonali, il presidente del Lions Club Host Domenico Garsia,
il prof. Luigi Amato
Presentazione
"Uomini del Conte Rosso" presso la sala delle conferenze
dell'Hotel "La Cavaliera" alla presenza dei soci del Club
Lions Host di Augusta.
Ecco
qui il testo del discorso preparato dall’autore (che ha però
poi preferito parlare “a braccio” ai numerosi presenti)
per i soci del Club Lions Host di Augusta:
“Uomini
del Conte Rosso”
Avevo
dodici anni, quando appresi la storia del Conte Rosso.
Quel giorno mio padre mi raccontò dei suoi inizi al volante:
era il 1941, c’era la guerra, e la benzina era razionata.
La Balilla del nonno forava continuamente gli pneumatici già
pieni di toppe, e bisognava spesso fermarsi a pulire il carburatore
pieno d’acqua.
Si circolava infatti con la benzina acquistata al mercato nero: era
la benzina del Conte Rosso.
Io non sapevo cosa fosse “la benzina del Conte Rosso,”
né perché fosse annacquata.
Così mio padre mi raccontò della tragedia, dei tantissimi
morti e dei fusti di benzina che galleggiavano nel mare di Avola e
che i pescatori, usciti in mare a recuperare superstiti e cadaveri,
raccolsero in gran quantità.
Dimenticai presto quella triste storia di guerra: di una guerra sbagliata
e, soprattutto, una guerra perduta che nessuno in Italia ha mai amato
commemorare negli ultimi sessanta anni…
basti ricordare come non si sia mai parlato, sino a pochi anni fa,
dell’eccidio di Cefalonia o delle Foibe del Carso…
Anch’io misi nel dimenticatoio l’affondamento del Conte
Rosso, ma allora avevo dodici anni…
Mi ricordai però delle parole di mio padre pochi anni fa, quando
lessi sul quotidiano La Sicilia un articolo dell’ingegner Tullio
Marcon di Augusta.
Era un commovente articolo scritto in memoria di quella tragedia che
aveva causato la morte di 1.300 giovani e la fine di una nave bellissima,
che non aveva nulla da invidiare al più famoso Titanic.
Riassumo,
per chi non sappia che gran bella nave sia stato il Conte Rosso: lungo
180 metri, dalla chiglia ai fumaioli era alto come un palazzo di dodici
piani. In prima e seconda classe non vi era un solo centimetro di
ferro a vista, perché tutte le pareti erano ricoperte da splendidi
legni intagliati e i saloni rivestiti da soffitti a cassettoni. Dipinti,
arazzi, un potabilizzatore di acqua marina (raro a quei tempi) e lampadari
di cristallo rendevano i viaggi piacevolissimi in queste classi.
Avrete tutti visto il film di Cameron sul Titanic: ebbene, immaginate
pure il nostro Conte Rosso come quella nave descritta da Cameron.
Vi dirò di più: poiché il Conte Rosso fu progettato
due anni dopo la tragedia del più celebre transatlantico britannico,
i progettisti lo dotarono di un doppio scafo e di paratie stagne richiudibili
elettricamente dalla Plancia.
Il Conte Rosso ha avuto anche un’altra peculiarità: poiché
durante la prima guerra mondiale il suo scafo era già pronto
in un cantiere di Glasgow, gli inglesi lo vararono, costruendovi sopra
un lungo ponte e creando così la prima portaerei della storia,
arruolata nella flotta di Sua Maestà britannica con il nome
di Argus. Finita la guerra, la nave tornò poi in cantiere per
essere riadattata al progetto originario.
La vicenda del Conte Rosso è stata ricordata anche in due numeri
della rivista “I Siracusani” dell’editore Morrone
e, nel maggio 2002, nuovamente su “La Sicilia”, da Giovanni
Failla che ha riportato i ricordi dell’ex ufficiale della Marina
Militare Salvatore Paone.
Quegli articoli hanno finalmente ridato voce, dopo sessant’anni,
ai 1300 morti del Conte Rosso e hanno creato, nella mia mente, tante
storie che ora chiedono solo di essere lette da tutti.
Come infatti le sculture di Michelangelo volevano essere liberate
dal marmo, così ora i miei uomini sono stati liberati dal mare
che li aveva inghiottiti un lontano giorno di maggio, sul far della
sera.
Per mesi sono stato spinto a scrivere una storia dopo l’altra,
e sicuramente avrei continuato, perché ne avevo altre tre in
corso d’opera quando l’editore Sovera di Roma mi ha proposto
di stampare i diciassette racconti già pronti. Ho accettato
perché in quei giorni, consultando internet, mi sono accorto
che anche il Conte Rosso era al suo diciassettesimo viaggio per l’Africa:
forse quindi diciassette racconti potevano bastare…
Quelle
scritte da me sono tutte storie inventate, ovviamente. Tutte tranne
l’ultima, quella del capitano Cosulich, che ho aggiunto perché
le gesta degli eroi devono essere d’esempio alle nuove generazioni:
perché i nostri giovani devono guardare all’onestà
e all’obbedienza al dovere e al sacrificio di questi uomini,
non certamente alla moda vana dell’apparire che porta, come
massima aspirazione, a far la velina o il calciatore lasciando, però,
la testa sicuramente vuota.
Quella
del Conte Rosso non solo è stata una tragedia più grave
di quella però più famosa del Titanic, ma è stata
anche una tragedia colpevolmente dimenticata dai politici e dai mass
media.
Soprattutto da questi ultimi che sono, in fin dei conti, i veri creatori
del gusto, degli umori e della coscienza nazionale.
Non lo ritengo giusto perché noi italiani, che abbiamo vissuto
gli anni della pace, abbiamo l’obbligo morale di ricordare quei
1.300 giovani che hanno avuto la giovinezza stroncata e che morirono
anche per noi.
Non ritengo giusto altresì che siano dimenticati la solidarietà
e il gran cuore mostrato da tutta la popolazione di Augusta verso
i 1.500 naufraghi riportati a terra nudi, intirizziti dal freddo,
neri di nafta e con ancora negli occhi la morte atroce di amici e
compagni.
“Augusta ci ha adottato” ha detto un naufrago: il giorno
successivo al naufragio infatti, chi non era stato ricoverato in ospedale
per le ferite andò in giro per le vie di Augusta rivestito
con la divisa da fatica della Marina ed era quindi facilmente riconoscibile.
Fu una gara di solidarietà: ovunque una popolazione che aveva
appena lo stretto necessario per vivere offrì vitto e alloggio
gratuito ai poveri ragazzi del Conte Rosso. Lo stesso accadde anche
nelle trattorie della città, dove i ragazzi furono invitati
a bere e a mangiare.
La
vicenda del Conte Rosso mi ha consentito di dare al lettore uno “spaccato”
della vita del Ventennio.
Poiché infatti in un naufragio la vita si ferma al momento
dell’inabissamento, per scrivere queste storie mi sono dovuto
calare nell’Italia d’anteguerra, immaginando il modo di
pensare dei nostri nonni, le loro abitudini quotidiane, la loro vita
sotto Mussolini e le loro angosce per la guerra.
E’
stato bello e stimolante per me l’aver immaginato come possano
aver vissuto persone appartenenti a tutte le classi sociali e anche
al clero. Ovviamente ho parlato di situazioni non comuni, talvolta
al limite del grottesco, ma chi potrebbe affermare che un monsignore
non possa mettere incinta una donna sposata, o che un medico non possa
anche essere pedofilo, o che Cesare Pavese non si sarebbe suicidato
se fosse rimasto a Brancaleone?
Vi
devo dire che il risultato della mia opera è stato senza dubbio
buono, se un mio lettore novantenne, ex ufficiale di artiglieria in
Libia durante la guerra, mi ha inviato i suoi ringraziamenti per avergli
dato, con la lettura di questo libro, l’emozione di rivivere
la sua giovinezza lontana.
“In quei tempi era proprio così.” ha detto al figlio,
“Ma come ha fatto il dottore a scrivere queste cose così
precise? Da come scrive, sembra proprio che vi sia stato!”
Cari
amici, la consapevolezza di aver fatto emozionare questo novantenne
mi ricompensa ampiamente della fatica di aver scritto e mi dà
la forza per continuare a farlo.
Vi ringrazio di cuore per avermi invitato oggi e, soprattutto, per
aver avuto la pazienza di ascoltarmi. Grazie.
Giuseppe
Bordonali
|
Presentazione
di "Ahmet Pascià" a Noto il 23 - 5 - 2003
1)
- (Al Rotary Club di Siracusa, il 17-11-2003)
Guai
ai popoli che ignorano il loro passato: chi non ha coscienza della propria
storia, della storia e delle tradizioni popolari del proprio territorio,
vive infatti come una foglia caduta dall’albero che ogni vento
facilmente trascinerà ora su, ora giù, ora a destra, ora
a sinistra, e sarà quindi facile preda del più sfrenato
consumismo o di estremismi, fanatismi e ideologie estranee alla nostra
cultura.
Sono rimasto allibito da come in Italia si siano lasciati crescere con
estrema superficialità, negli ultimi vent’anni, i nostri
giovani davanti ai teleschermi di Italia Uno o Canale Cinque: le televisioni
commerciali infatti, sostituendosi con i loro cartoni giapponesi e con
i loro film americani alle mamme e ai nonni italiani, hanno importato
la cultura dell’apparenza alla Beverly Hills, dell’immoralità
alla Beautifull, del mangiar male tipico dei Fast Food, e della droga,
dei super alcolici, della violenza per bande e del facile arricchimento,
tipico del sogno americano, che sono estranei alla nostra cultura, ponendo
soprattutto l’immagine esteriore del corpo al di sopra di ciò
che si possiede nell’animo e nella mente, e quindi il possesso
del denaro come il Bene assoluto al di sopra dei Valori Universali che
la filosofia, la religione, e la cultura umanistica europea aveva da
secoli connaturato nelle nostre anime. Qualcuno di voi si è chiesto
a quale società ci porterà un futuro di sole Veline e
Letterine e di palestrati agli ormoni?
E’ forse per questo motivo che molti giovani a Siracusa non hanno
alcuna cognizione della grande storia vissuta nei secoli passati dalla
nostra città, ma sanno tutto di Totti e di Vieri e delle loro
Veline o Letterine.
Chi potrà recuperare alle nostre tradizioni i nostri giovani?
Potrà farlo solo chi ha accumulato negli anni la saggezza, la
cultura e la storia degli antenati.
Io sento il dovere di divulgare la storia della nostra terra a piene
mani, come fa il seminatore con il grano: se infatti anche un solo giovane
dovesse accogliere il messaggio culturale dei miei libri come fa il
terreno fertile in cui germoglia il grano, io non avrò vissuto,
e scritto, invano.
Anche i più anziani, comunque, spesso non hanno che una vaga
idea di ciò che è stata Siracusa nel passato, e questa
conoscenza si ferma sempre alla antica storia della Siracusa greca di
cui tutti vediamo le vestigia sparse in ogni angolo del nostro territorio.
Ma queste vestigia sono pietre mute: pietre che parlano però
solo alla sensibilità di chi ha coscienza della propria storia.
Con Il dono di Ahmet Pascià, ho voluto parlare di un’epoca
poco conosciuta, perché tutti a Siracusa sanno della grande epopea
greca della nostra città, ma nessuno conosce le vicende vissute
dalla nostra terra e dai nostri antenati nei secoli successivi.
Vi porto un esempio. Io stesso, da ragazzo, mi chiedevo perché
i siracusani chiamassero il ponte umbertino al plurale: I Ponti. Qualcuno
di voi sa darmi la risposta?
I nostri nonni ci avrebbero dato subito la risposta esatta. I nostri
nonni infatti hanno vissuto in una città completamente diversa
da quella che noi siamo abituati a vedere: una città sul mare,
ma che non vedeva il mare, una città stretta da mura e isolata
dalla terraferma da ben quattro canali, quattro ponti e quattro porte.
E proprio l’abitudine di parlare dei ponti per entrare ad Ortigia
è arrivata sino a noi nel chiamare I Ponti il vecchio ponte umbertino.
Quanti di voi conoscono la bellezza della porta monumentale di Ligny?
E quanti di voi sanno che all’altezza dell’attuale Pozzo
ingegnere c’era il primo canale con la prima muraglia, l’opera
a corona, e il primo ponte che portava alla Porta a Terra che veniva
chiusa al tramonto lasciando fuori i ritardatari? Da lì un altro
ponte su un altro canale conduceva alla Porta di Villafranca, attraverso
cui si passava al Montedoro, la grande piazza d’armi. Poi un altro
ponte su un altro canale portava al Barbacane, e un altro ponte infine
alla Porta di Ligny, e alla Porta Reale, ingresso di Ortigia. Ho studiato
queste fortificazioni e il tessuto urbano di Ortigia grazie ai lavori
di Lucia Trigilia e della Dufour, e sono giunto alla mia personalissima
idea che Siracusa, da sempre il centro più importante della Sicilia
orientale, una volta divenuta piazzaforte militare, sia stata soppiantata
proprio in quei tre secoli di prigionia da Catania, città militarmente
meno importante, e quindi lasciata più aperta ai commerci.
Perché però ho voluto scrivere un romanzo?
Perché siamo pieni di trattati, e i trattati scocciano i più,
interessando solo gli storici e gli appassionati.
Con il mio romanzo, invece, ho consentito già a tanti siracusani
di passeggiare per le vie della antica Ortigia, partecipando, come già
qualcuno mi ha detto, ad uno stupendo film a colori.
2)
– ( Al Club degli Amici di Siracusa, 14-03-2004)
foto
al club degli amici: il presidente Giuseppe Pignata, Giuseppe Bordonali
e il sig. Piazza
Oggi
festeggiamo il primo anniversario della pubblicazione de “Il dono
di Ahmet Pascià”.
Ricordo come fosse stato ieri quando sono andato a ritirare le prime
copie con il prof. Morrone, il mio editore, alla tipografia Invernale
di Floridia: iniziò a piovere, e il prof. Morrone sorrise:
“Buon segno, dottore: sposa bagnata, sposa fortunata…”
E così è stato, in effetti, se quest’anno “il
dono di Ahmet Pascià” è stato il romanzo scritto
da un siracusano più venduto a Siracusa, ciò è
avvenuto perché il romanzo è scritto in prosa scorrevole
ed elegante e perché la storia che si svolge nella nostra Siracusa
secentesca è avvincente.
Al “Dono di Ahmet Pascià” è poi seguita, lo
scorso Dicembre, la pubblicazione della seconda parte della vicenda
intitolata:
“Le ali di Icaro” per i tipi della Verba Volant edizioni.
Il progetto iniziale era di pubblicare “Le ali di Icaro”
dopo almeno un anno dalla pubblicazione di “Ahmet Pascià”:
ma tali sono state le richieste dei miei lettori di poter leggere la
continuazione della storia, che ho deciso di anticipare i tempi.
Ora i due volumi stanno per essere distribuiti in tutta la Sicilia e
già mi è stato richiesto di partecipare a presentazioni
in tutta l’isola, iniziando da Messina, per passare poi a anche
a Reggio e a Vibo Valenzia.
Il professor Morrone ha già contatti avviati per realizzare una
Fiction da Ahmet Pascià.
Se questa si farà, ovviamente seguirà anche quella tratta
da Le ali di Icaro.
Aspetto con ansia di poter vedere realizzata questa bella storia ambientata
nella Siracusa del Seicento: una città che la maggior parte dei
siracusani non conosce perché in genere ci si limita sempre a
parlare e a mostrare le vestigia del grande passato greco della nostra
città, mentre anche la Siracusa secentesca era stupenda, dietro
le sue Porte monumentali, racchiusa tra i poderosi bastioni, i canali
e i ponti costruiti dagli architetti di Carlo V, che ne avevano fatto
l’estrema piazzaforte in difesa dell’impero spagnolo dalle
minacce ottomane.
E’
pronto il terzo romanzo ambientato durante la visita del Papa nel 1994.
Sto completando un altro bellissimo romanzo storico ambientato a Siracusa
nel 1798, durante la sosta di Orazio Nelson nella nostra città.
3)
- (Alla Fidapa di Floridia, 28-03-2004)
La nostra vita è la continuazione naturale delle vicende dei
secoli passati. Il nostro pensiero, le nostre abitudini, i nostri gusti,
e quindi la nostra cultura, sono la diretta conseguenza di quegli avvenimenti.
Come l’oggi è la diretta conseguenza delle vicende del
passato, così il romanzo di cui parliamo oggi, Le ali di Icaro,
è la naturale continuazione de Il dono di Ahmet Pascià,
il romanzo della nostra terra, che si chiude con la descrizione del
terremoto del 1693 che distrusse la Sicilia orientale.
Le vicende narrate in Ahmet Pascià, sono infatti alla base della
grande caccia al tesoro scatenata dal miliardario americano Arthur Tullner,
che vuole impossessarsi ad ogni costo del cofanetto di Icaro con i papiri
di Archimede, dono mancato (perché rimasto in Sicilia) del gran
visir ottomano Ahmet Pascià al Re Sole.
Chi ha già letto Il dono di Ahmet Pascià potrà
seguire in questo romanzo le ricerche del cofanetto di Icaro contenente
il Trattato eliocentrico di Archimede, effettuate a Noto dal professor
Peter Van den Berg, e potrà conoscere la nostalgia della Sicilia
che prende poi lo stesso ricercatore tornato in California: ( pag. 46:
“Uscì sulla veranda da dove si vedeva l’oceano…
…le magnifiche parole di quella lingua perduta.)
Ne Le ali di Icaro, il lettore scoprirà anche come sia morto
don Nicola Perez, l’ambizioso gesuita artefice e protagonista
delle vicende narrate nel primo volume, e potrà leggere le ultime
lettere lasciate dallo stesso in punto di morte:( pag. 130: “Diu
onnipotenti… ….ca tantu iu vulìa avìri”)
Ho voluto risvegliare anche la coscienza verso la tutela dei nostri
beni archeologici e paesaggistici: descrivendo l’incendio che
nell’estate del 1998 ha devastato l’antica Noto e le contrade
vicine. (pag. 137: “Le fiamme erano state un flagello biblico….
La reale entità del terremoto che l’aveva distrutta.”)
Mi addolora molto pensare che quell’incendio sia stato appiccato
dolosamente da un manovale della forestale. Gli sfregi all’ambiente
sono ancora evidentissimi e alcuni insanabili: quell’uomo ha arrecato
un grave danno alla comunità e quindi anche ai suoi figli, chissà
se se ne è reso conto.
La lettura dei due romanzi ci dà anche modo di osservare la differente
condizione femminile nei due secoli: nel Seicento Elena, la nipote del
principe, avrebbe dovuto farsi suora non per vocazione, ma perché
era senza una dote adeguata al suo rango; l’ebrea Giuditta viveva
subordinata al padre rabbino e alle sue ferree leggi; Sofia, abbandonata
dal marito Vasco, era riuscita a dare un’istruzione al figlio
Mario solo iscrivendolo al Seminario vescovile; Lucia infine, obbedendo
allo zio, dovette rinunziare a frequentare l’innamorato Matteo.
Vi faccio notare che tutte queste citate sono donne libere, capaci di
ribellarsi ai soprusi e di far valere le proprie qualità: ma
la condizione subordinata della donna nel Seicento renderà comunque
loro la vita molto difficile.
Invece ne Le ali di Icaro, donna Irene di Belmonte, imprenditrice, è
il principale sponsor del congresso sul terremoto; la giovane principessa
Eleonora, architetto, è incaricata dal vescovo di Noto del restauro
del convento di S. Maria della Provvidenza e Julia, la fidanzata croata
di Corrado, è archeologa. Tre ex mogli americane vivono felici,
dopo il divorzio, con i ricchi alimenti del miliardario Artur Tullner
che sta già cadendo, da sciocco, tra le braccia della segretaria
Anne Dwight.
Sono tutte donne artefici della propria vita e protagoniste nel mondo:
è evidentemente cambiata di molto la condizione femminile in
questi tre secoli, e per fortuna!
Voglio infine aggiungere che questo romanzo è dedicato alla memoria
di Emanuele Scieri, il giovane siracusano morto il 13 agosto 1999 nella
caserma Gamerra, a Pisa, per un episodio di nonnismo. Spero che questo
libro serva per non dimenticarlo e per ottenere presto la verità.
Io non conoscevo il povero Emanuele.
Voglio quindi rivelarvi come il destino mi ha portato a inserire il
suo nome nel romanzo: il 18 agosto del 1999 stavo scrivendo il capitolo
del terremoto descritto in Ahmet Pascià, e avevo tra le mani
la rivista dell’ISVNA con i nomi dei sopravvissuti al terremoto
del 1693.
In un momento di pausa dalla scrittura avevo acceso la televisione per
ascoltare il telegiornale, mentre leggevo sulla rivista del referendum
concesso alla popolazione netina dal duca di Camastra: si sarebbe deciso
se ricostruire la città sull’Alveria, o se ricostruirla
sul nuovo sito del Meti. Avevano diritto al voto tutti i capofamiglia.
Cito alcuni nomi: Angelino, Attardo, Baglieri, Cannata, Failla, Guzzardi,
Impellizzeri, Infantino, Landolina, Macca, Pirri, Raudino, Scieri….
Già, mentre leggevo “Scieri” la voce di un cronista
riferiva del “parà” siracusano morto a Pisa…
segno del Destino? Forse qualcuno mi voleva indicare qualcosa? Ma io
sono una persona piuttosto razionale e non credo a queste cose! Però…
però il nome di Emanuele da quel giorno mi è entrato in
testa, e non è più andato via.
Volete sapere che risultato diede il referendum? Naturalmente una schiacciante
vittoria per la ricostruzione sull’Alveria.
Ma l’emissario del duca di Camastra, non essendo d’accordo,
minacciò di scomunica chiunque fosse rimasto sul sito dell’antica
Noto, e la nuova città fu costruita sul Meti. Questa era la democrazia
a fine Seicento: niente a che vedere con la nostra, naturalmente, ma
chissà cosa ne diranno i posteri della nostra, tra qualche secolo?
4)
– ( per i ragazzi del Liceo Scientifico Luigi Einaudi di Siracusa,
in occasione della premiazione del concorso Carmelo Vinci,
Villa Reiman 5-5-2004)
IL
PIACERE DI SCRIVERE PER TRASMETTERE EMOZIONI
L’uomo
ha bisogno di comunicare costantemente con i suoi simili perché
è, come scriveva Aristotele, un animale sociale.
Sapete bene che nelle relazioni interpersonali sono importantissimi
i gesti, dal sorriso alla stretta di mano e che è importantissimo
l’uso della parola.
Ma il sorriso, il pianto, la disperazione, o la parola con cui esprimiamo
i nostri sentimenti, possono ottenere solo un risultato immediato, perché
le parole volano via e vengono presto dimenticate.
Come possiamo allora trasmettere agli altri in modo più duraturo
ciò che ci affligge o ci allieta l’animo?
Dal Paleolitico ci sono giunti tanti bei graffiti raffiguranti scene
di caccia o di riti sacri. Questi graffiti sono le prime espressioni
dell’arte umana e sono anche le più antiche rappresentazioni
di emozioni vissute dall’uomo.
E’ però con la scrittura che inizia la Storia. Con la scrittura
siamo infatti in grado di conoscere, a distanza di millenni, cosa sia
accaduto ai popoli antichi: come vivevano, quali Dei adoravano, cosa
pensavano.
La scrittura ci ha tramandato le loro leggi, i loro amori e le loro
angosce.
I Poemi omerici furono tramandati oralmente per secoli e si sarebbero
persi, se qualcuno non li avesse trascritti, donandoci così il
piacere di poterli leggere.
Quindi è bello leggere per ricevere emozioni.
Mi emoziono ancora rileggendo l’addio di Ettore ad Andromaca e
al piccolo Astianatte alle Porte Scee: “Giorno verrà, presago
il cor mel dice, che Ilio cadrà…” ma il piccolo bambino
scoppia subito a piangere. Non per le parole che ancora non comprende,
ma perché impaurito dal cimiero del padre. Ettore allora si toglie
l’elmo e prende il figlio affettuosamente in braccio: ditemi se
non è questo il più antico appello alla pace.
Mi affascinano poi le peripezie di Odisseo e le poesie di Saffo, adoro
la descrizione del mare azzurro di Siracusa lasciataci da Mosco: un
mare che invita gli uomini a solcarlo quando è calmo e che li
invita invece a coltivare la terra quando le sue onde, biancheggiando,
si infrangono sulle alte scogliere del Plemmirio.
La scrittura ci ha tramandato i Vangeli e le figure dantesche che abbiamo
studiato al liceo e che rimarranno nostre per tutta la vita ( Paolo
e Francesca: “Come colombe dal disio portate…” Il
conte Ugolino: “La bocca sollevò dal fiero pasto…”
Pier delle Vigne: “Ambe le chiavi tenea del cor di Federigo…”
Ulisse: “Fatti non foste a viver come bruti…”).
La penna di Shakespeare ci ha lasciato Lady Macbeth convinta di aver
le mani sempre lorde del sangue del re da lei assassinato e Giulietta,
conscia dell’impossibile amore, che dice al suo innamorato: “O
Romeo, perché sei tu, Romeo?”
Insuperabile è Manzoni, con l’addio ai monti di Lucia e
con la madre che porta al monatto la piccola Cecilia morta di peste,
ne I promessi sposi. Verga scolpisce sulla carta la Sicilia dei Malavoglia
e delle novelle con la stessa potenza con cui Michelangelo aveva scolpito
i suoi personaggi sul marmo di Carrara.
Pascoli poi scrive in ricordo del padre ucciso:
“O cavallina, cavallina storna,
che porti colui che non ritorna.”
Questa
letteratura fa parte della nostra cultura:
non avremmo avuto il piacere di conoscerla, se qualcuno non l’avesse
trascritta su un antico papiro o su un foglio di carta.
Quindi è bello leggere ed è opera altamente meritoria
quella svolta dall’Associazione per la lettura, organizzata a
Siracusa dalla professoressa Francesca Nardone, che si occupa di promuovere
la lettura nelle scuole e il “libro” come bene culturale
all’interno dell’Università.
Dal
piacere della lettura è poi naturale passare al piacere della
scrittura: soprattutto quando si ha dentro l’animo qualcosa che
pretende di uscir fuori perché vuole essere letto dagli altri.
Vi porto la mia esperienza.
Amo Siracusa e so cogliere dalle sue pietre, greche o barocche che siano,
la grande storia di cui esse sono state testimoni: per questo motivo
ho scritto un romanzo storico ambientato a Siracusa.
Non nella Siracusa greca, che tutti sappiamo essere stata grandissima,
ma nella Siracusa del Seicento, che pochissimi conoscono.
Era la Siracusa delle fortificazioni di Carlo V, quella dei quattro
canali e dei quattro ponti, l’estremo baluardo dell’impero
spagnolo che si opponeva all’espansione ottomana verso l’Europa
occidentale.
Una Siracusa che non c’è più, perché distrutta
in epoca Umbertina.
Ne “Il dono di Ahmet Pascià” prendo spunto da un
importante fatto storico: nel 1672 il Re Sole aveva iniziato la conquista
della Sicilia e nell’aprile del 1676, conquistata Augusta, puntava
su Siracusa.
Venne in soccorso della Spagna una flotta olandese comandata dall’ammiraglio
Michiel Adriaanson De Ruyter: un vincente, uno che gli inglesi chiamavano
Il Terrore dei mari e che aveva anni prima risalito il Tamigi, bombardando
gli arsenali di Londra.
De Ruyter fece base a Siracusa e affrontò i francesi, ma venne
ferito a una gamba e ricoverato all’ospedale di Siracusa dove,
purtroppo, morì dopo sette giorni.
Questo è un episodio della Grande Storia europea: De Ruyter,
che per gli olandesi è un eroe come per noi Garibaldi, morì
a Siracusa.
“Il dono di Ahmet Pascià” inizia quel 22 aprile del
1676, quando immagino che gli olandesi portino a Siracusa un cofanetto
ellenistico d’avorio, dono del gran Visir di Istanbul al Re Sole.
Perché vi parlo di questa mia esperienza? Perché quel
romanzo l’ho scritto di getto in appena trenta giorni: nel mese
di Agosto del 1999.
Di buon mattino veniva Adriaan, il protagonista, a gettarmi giù
dal letto: poi pazientava che mi facessi il caffè e si piazzava
subito alle mie spalle a dettarmi le vicende.
Dopo quell’esperienza comprendo perfettamente come Giovanna D’Arco
avesse potuto dire: “Sento le voci che mi ordinano di liberare
la Francia!”
Anch’io sentivo “le voci dei miei personaggi che volevano
uscire fuori e vivere la loro vita”. La fatica non mi pesava e
non mi accorgevo del tempo che passava.
Volete sapere se è stato un piacere aver scritto il Dono di Ahmet
Pascià?
Sì, ne sono convinto, ma sono ancor più convinto che per
me sia stato un dovere averlo scritto. Un dovere verso la mia città
che ha bisogno di essere valorizzata per quello che merita e un dovere
verso i miei concittadini: molti, letto il romanzo, mi hanno ringraziato
per averli resi protagonisti, come in un film di cappa e spada, di una
bella storia ambientata in Ortigia.
Dopo
aver vissuto l’esperienza travolgente di Ahmet Pascià,
mi rivolgo ai giovani presenti in sala:
seguite il mio esempio.
Non
mortificate la vostra fantasia e il vostro estro.
Scrivete,
suonate, scolpite, dipingete, componete.
Ricordate
che sino a diciott’anni tutti siamo poeti: poi le difficoltà
della vita, purtroppo, uccidono la poesia e la creatività nei
più.
Cari
amici, cercate di mantenere intatta per sempre la creatività
giovanile nel vostro cuore! |